A dispetto delle mie prese di posizione estetiche, tutto quello che ho sempre desiderato nella vita è stato ed è tutt’ora passare inosservata. Questo non è affatto dovuto alla bassa autostima. Non è neanche un pensiero alienante, qualcosa che mi logora in maniera melodrammatica. Assolutamente no. Voglio solo essere lasciata perdere, libera di vivere come voglio, dove voglio, con chi voglio senza dover sottostare al giudizio spicciolo sociale del popolino.
Per questo motivo e questo senso di libertà conficcato nel cuore come un coltello da cucina (quelli a punta) ho vagato – ermeneutica – nella finitudine della mia anima per anni, prima di trovare il punto di equilibrio e rotazione necessari per apprezzare l’autenticità del mio essere.
L’essere al centro dell’attenzione mi ha spesso turbata.
Questo tratto genetico è stato contratto e viene attualmente protratto. La luce della ribalta non fa per me, che ho sempre preferito lavorare dietro le quinte. L’ossessione di rifuggire l’attenzione altrui è diventata pungente col passare degli anni, durante i quali mi sono mimetizzata col sottosuolo urbano per non soccombere, a contatto con la socialità forzata scolastica.
A quel punto ho cominciato a costruirmi gli affetti che mi porto oggi ancora dietro, persone e personaggi molto diversi tra loro, ma con una vibrazione di fondo unica. Inconfondibile. Un richiamo atavico e selvaggio che sentivamo farci tremare il cuore: il disagio.
Devo, in verità, questo chiarimento a un caro amico che ho rivisto lo scorso agosto, all’ombra di luoghi di culto antichi, tra le ossa dei martiri e le grida soffocate di condannate a morte per non aver soffocato la propria natura.
Queste riflessioni sono cominciate nelle retrovie della mente, già alcuni mesi fa, come conseguenza dell’osservazione quotidiana della realtà dei fatti che mi circonda, e in questo momento storico, che ricorderemo tutti perché a differenza degli eventi studiati sui libri brucia sulla nostra pelle, rimbombano come un’eco da quel buco profondo in mezzo al petto.
Mi sento confusa.
Non è un sentimento nuovo, però assume una tiratura diversa per via della stratificazione dell’esperienza.
Una settimana fa a quest’ora stavo preparando la colazione e dicendo a MM di prepararsi. Dodici ore dopo, niente sarebbe stato più lo stesso.
Ci sono varie categorie umane che decidono volontariamente di isolarsi più o meno intensamente dal mondo esterno. A dire la verità, il mio essere sociale si riduce a una manciata di ottimi amici e parenti, e qualche conoscenza tattica/logica per sopravvivere e non far pesare a mia figlia di avere una madre introversa. Che poi che cazzo vuol dire introversa, i miei amici sono introversi e sono gente allegra che il cielo o il settimo girone infernale l’aiuta. Noi introversi riusciremo a sopportare tutto questo senza impazzire davvero, perché in fin dei conti non abbiamo che affinato le nostre peculiari doti anti sociali. Facciamo le prove generali di tutto ciò da anni, in fondo.
La mia casa, seppur di quarantasette metri quadri più balcone, è il mio castello e sto scoprendo e amando ogni centimetro di essa. Abbiamo libri a sufficienza, strumenti musicali a sufficienza, giochini e straminchiate varie a sufficienza e amore a profusione. Potremmo costruire una fontana di cioccolata con l’amore che scorre cioccolatoso in questa casa, lo dice pure MM.
PRIMO MOVIMENTO
È incredibile come l’essere umano possa contenere in sé la grandiosità dell’anima eterna e la piccolezza di un incantesimo di vigliacchieria ed egoismo, fatto di gel appiccicoso appallottolato, come in uno dei nostri lungometraggi dello Studio Ghibli preferito (La città incantata, nda). È ancora più incredibile come sia difficile a volte mettere in ordine i pensieri, mettere in fila le parole che poi di colpo cominciano ad accatastarsi da sole, e come facendo un passo indietro si abbia il quadro della situazione, lentamente, sempre più nitido.
Credo fermamente nel potere catartico della scrittura.
Lo faccio da una vita, lo facevo anche quando non ne ero consapevole. Un diario, in questi giorni, è cosa più che dovuta a me stessa, a mia figlia, che capirà in futuro magari cosa successe davvero in quell’anno di merda duemilaventi, quando siamo restate a lungo in casa e ci siamo inventate avventure nuove ogni giorno, mentre la notte non riuscivo (almeno io, lei dorme il sonno dei giusti che le spetta) a dormire. Di come questo tipo di situazione mi stia facendo rimettere in gioco tutto, e magari ripensare all’Italia con un occhio diverso. E a questi tedeschi e alla Germania con il solito disincanto e un pizzico d’amarezza in più.